Il 26 ottobre il Centro Culturale ha partecipato con coloro che hanno colto l’invito al Pellegrinaggio nei luoghi dove svolse il Suo apostolato mons. Luigi Padovese nella Turchia Sud occidentale ai confini di Siria ed Iraq,alla scoperta di una chiesa sorella dei tempi apostolici con una ricchissima teologia, liturgia e spiritualità, oggi tra le più sofferenti del medio oriente.

Mettiamo a disposizione dei partecipanti e non un saggio di Renè Lavelant e una sintesi di Sabino Chialà utili alla comprensione del viaggio

Testimonianza del Pellegrinaggio in Turchia Siriaca

L’ultima settimana di ottobre e precisamente dal 26 ottobre al 3 novembre, un gruppo di venticinque persone, provenienti da tutta Italia, ha partecipato ad un Pellegrinaggio in Turchia Siriaca con mons. Paolo Bizzeti, vescovo dell’Anatolia, organizzato dall’associazione onlus “AMO” (Amici del Medio Oriente), col supporto della viaggeria francescana “Frate Sole”.

Fra di loro, c’eravamo anche noi, un gruppo di soci del Centro Culturale Luigi Padovese di Cucciago, che abbiamo aderito all’invito che ci è stato rivolto.

La decisione di partecipare a questo viaggio è stata messa a dura prova dalle notizie, ripetutamente sbandierate dai media europei, nei giorni precedenti alla partenza, di un nuovo conflitto sulla fascia di confine che divide la Siria dalla Turchia, conseguenza dell’abbandono di quel territorio da parte delle truppe statunitensi.

Alcuni iscritti pur avendo già corrisposto le quote di partecipazione, non intendevano più partire, mettendo in dubbio la parola di Mons. Bizzeti che da parte sua ci aveva rassicurati sull’insussistenza di pericoli attuali dalla parte turca del confine, ovvero lungo la tratta di circa quattrocento chilometri che separa la Turchia dalla Siria e dall’Iraq, nella quale si sarebbe svolto il pellegrinaggio, seguendo dapprima il confine con la Siria per arrivare fino a lambire quello con l’Iraq. Ci siamo trovati a poche decine di chilometri, seppure dall’altra parte del confine, dalle città di Aleppo, Kobane, Erbil, Mosul, teatro del più feroce terrorismo islamico e di guerre decennali, con i loro immensi carichi di sofferenza.

In questa parte della Turchia, estesa quanto due volte l’Italia, l’Islam è sicuramente la religione più diffusa ed è promossa attivamente dal governo. Le moschee sono numerosissime, ovunque in città e ovunque sparse sul territorio, così come sono numerosissimi i presidi militari posti accanto ad ogni minimo insediamento umano.

In Turchia, la Chiesa Cattolica non gode del riconoscimento giuridico per ragioni di storia recente e si trova in una posizione di svantaggio anche nel confronto di altre confessioni cristiane.

Mons. Bizzeti ci ha raccontato che alcuni cristiani in Turchia percorrono dai quattrocento agli ottocento chilometri per poter partecipare ad una Eucarestia. Dagli ottocento chilometri ai milleseicento chilometri per poter partecipare ad una Messa, spesso in poco più di 24 ore!

Il Vicariato di Anatolia si estende dal Mar Nero fino al Sud della Turchia, comprendendo quindi le città di Gaziantep, Shanliurfa, Mardin, Midyat, Idil, Nisibis. Qui abbiamo incontrato delle famiglie cristiane, soprattutto ortodosse, che fra mille difficoltà hanno deciso di rimanere, e visitato decine di Chiese e Monasteri di tradizione siriaca risalenti ai primi secoli del cristianesimo, quindi alle prime comunità cristiane. Abbiamo incontrato ed ascoltato le esperienze di tante persone e siamo stati accolti sempre con grande gioia; abbiamo ascoltato l’esperienza di Vescovi e Metropoliti ortodossi, di uomini e donne, abbiamo incontrato occhi di bambini pieni di gioia nei villaggi più poveri.

In base agli stereotipi occidentali stupisce, per certi versi, la bellezza e la grazia di molte donne islamiche incrociate in queste città di origine siriaca, nei loro abiti tradizionali, per la verità qui non così umilianti, in grado di coniugare la femminilità alla discrezione, in un atteggiamento di custodia e di rispetto.

Abbiamo capito che giungendo in questi luoghi non si può dar per scontato nulla, soprattutto non si possono utilizzare le categorie di giudizio occidentali: il Rinascimento e l’Illuminismo non fanno parte della storia di questi luoghi, i riferimenti sono altrove, sicuramente nell’Islam o nello stato onnipresente, nelle radici arabe, o in quelle curde o siriache.

Siamo stati a Shanliurfa, una città di un milione e mezzo di abitanti, dove non esiste una sola comunità cristiana e non si è certi della sopravvivenza di qualche cristiano. Shanliurfa è il nome dell’antica città di Edessa dove si sviluppò e fiorì un’importante comunità religiosa che ebbe un ruolo rilevante nella diffusione del cristianesimo in Asia, India e Cina. In questa città, il ventisette ottobre, domenica, alla nostra comunità di pellegrini italiani è stata concessa la possibilità di celebrare l’Eucarestia, presieduta da Mons. Bizzeti, Vicario apostolico di Anatolia, in una sala messa a disposizione dall’albergo dove soggiornavamo.

La Santa Messa a Edessa non è stato che uno degli infiniti momenti estremamente intensi di questo pellegrinaggio, così come la recita delle Lodi e dei Vespri, accompagnati dalle parole di Mons. Bizzeti. Né il cristianesimo, né i cristiani qui sono ben visti, né dallo stato né dai curdi, né dagli arabi e tantomeno dai turchi … c’è una sorta di tolleranza che regge finché regge.

Certo la maggior parte dei musulmani non sono estremisti e nemmeno tutti i curdi si dedicano alla lotta armata per la rivendicazione del territorio, non tutti i soldati se ne approfittano … dovunque si possono incontrare persone libere, di ogni appartenenza religiosa: lo si capisce dai loro sguardi, senza comprendere come questo sia possibile, specie nelle piccole aggregazioni sparse sul territorio, dove le evidenti condizioni di povertà si aggiungono a varie aspre difficoltà.

In un monastero ortodosso nei pressi di Midyat, il monaco che ci parlava, alla nostra domanda sul perché fosse raffigurato su una tenda il Volto di Gesù con il Sacro Cuore, che a nostro avviso costituiva una devozione di origine cattolica e non ortodossa, ha risposto senza esitazioni: “A me non importa nulla a chi appartenga la tradizione, per me su quella tela c’è Gesù Cristo e questo per me è tutto!”. In questi luoghi si respira un ecumenismo “di fatto”, facilitato dall’asperità delle circostanze.

In viaggio verso Midyat abbiamo visitato una chiesa ortodossa mantenuta da un fabbro e dalla sua famiglia. Oltre alla bellezza dell’antica chiesa celata in un cortile, ha suscitato notevole interesse l’incontro con la famiglia che la conserva, unica famiglia cristiana della città, in assenza di un sacerdote ed in un contesto apertamente ostile. Essi l’hanno restaurata a loro spese, se ne prendono cura e pregano tutte le settimane sulle tombe dei loro antenati sepolti nel giardino.

Una semplicità disarmante, una fede che ha superato anni di discriminazioni, semplicemente “restando”, per poter custodire la casa di Dio. All’uscita dalla chiesa, troviamo due agenti, forse richiamati da qualcuno per l’insolito flusso di persone, opportunamente armati, che stanno a guardare. Siamo ripartiti senza curarci troppo di loro, nella speranza che a loro volta non abbiano rivolto troppa attenzione nei confronti della famiglia del “fabbro” e della “sua” chiesa.

Ogni incontro fra Mons. Bizzeti (successore di mons. Luigi, assassinato ad Inskenderun, il 3 giugno 2010) con i monaci, i custodi, i vescovi ed i metropoliti ortodossi, iniziava con un grande abbraccio tutt’altro che formale.

Un monaco ortodosso ha ricostruito da solo, in cinque anni, un monastero che ha più di millecinquecento anni ed ora sta costruendo una scuola per insegnare ai bambini della zona il siriaco; diverrebbe l’unica scuola innovativa in un territorio grande quanto l’Italia. Dal suo monastero si possono vedere le fiamme dei pozzi di petrolio della Siria e sullo sfondo i monti dell’Iraq.

Il petrolio è un altro problema, ed è innanzitutto l’unica cosa che interessa veramente all’occidente. In questa fase storica non tanto per essere estratto, ma piuttosto per poterne controllare e gestire i giacimenti, evitando di avviare nuove estrazioni che provocherebbero un eccesso di offerta sui mercati facendo crollare i prezzi, a danno delle esportazioni statunitensi.

Certo, quando cammini per l’aeroporto di Istanbul o in quello di Mardin hai l’impressione di essere in una delle più moderne città europee e avverti che l’Italia è fuori gioco da questa classifica; anche il grande museo dei mosaici dei primi secoli di Gaziantep è paragonabile ai più importanti musei del mondo e forse unico nel suo genere per la quantità, il valore e lo stato di conservazione delle opere contenute.

Tutto scorre, anche l’acqua, a Mardin, dove restiamo intrappolati con alcuni musulmani nel corridoio della piccola ma piacevole moschea, per un forte temporale che ha portato acqua abbondante in luoghi dove di solito l’acqua scarseggia.

Abbiamo visitato un’infinità di chiese siriache dei primi secoli, vedendo un altare del 250 d.C., nella maggior parte dei casi custodite da famiglie che restano in queste terre difficili con tutti i rischi del caso.

L’emigrazione di turchi siriaci verso l’Europa, soprattutto Svezia, Norvegia, Germania e Svizzera tedesca, è stata fortissima negli anni 80 del secolo scorso, riguardando soprattutto famiglie cristiane cattoliche o ortodosse, a causa delle persecuzioni fortissime in quegli anni. Questo fenomeno ha svuotato le comunità già piccole, tuttavia qualcuno resta e ci mostra la Chiesa che magari ha restaurato a proprie spese e ci racconta la sua storia.

Abbiamo visitato la Provincia di Midyat alla vigilia del giorno di tutti i Santi, mentre in Europa si festeggiava Halloween, ma qui di Halloween non c’è traccia. Siamo arrivati in villaggi abitati da famiglie cristiane (dieci o venti famiglie) con moltissime testimonianze architettoniche. Abbiamo trovato volti di persone povere, sguardi felici, molti si sono lasciati fotografare mentre ricoveravano le capre o le galline nei recinti.

Nello stesso giorno siamo arrivati in una città ai confini con la Siria e percorrendola a piedi per vedere le testimonianze presenti, abbiamo incrociato sguardi più duri, pesanti. Lì era successo qualcosa di più grave. Grate alle finestre delle case, oppure resti di tante case rase al suolo come discariche di sassi, posti di blocco alle strade di accesso. Qui non viene riservata particolare accoglienza da parte degli abitanti, resi più diffidenti dalla guerra fatta dall’esercito turco da pochi anni; c’è anche più sporcizia, c’è degrado.

Una donna, nata qui e qui tornata dall’Europa ci racconta la sua storia, di quando le ruspe dell’esercito sono entrate in città e hanno raso al suolo tutte le case vuote; ci parla di quando in una delle chiese la gente ammassava volutamente carcasse di animali morti, una chiesa cristiana usata come pattumiera; ci racconta di quando andò da sola nei campi profughi dall’altra parte del confine a portare soccorso, per aiutare e per salvare vite, di quando andò da sola a Mosul in mezzo agli estremisti islamici che lei appellava “barbe nere”. Francamente credevo fosse pazza ma ho capito che mi sbagliavo quando ha detto: “Io qui non mi posso fidare di nessuno, c’è molta ignoranza, c’è odio, per via del male e delle ingiustizie che tutti hanno subito da questa o da quell’altra parte, però mi posso fidare di Dio e lui pensa a me!” Questa è un’altra fede dalla nostra così timorosa! Come è possibile? Dio la benedica e la protegga anche dalla sua generosità!

Dal cortile di una casa, protetta da un alto muro, si accede ad una Chiesa dei primi secoli che questa donna conserva: qui celebriamo la Santa Messa; l’omelia è disarmante, il tema è “la sicurezza”. L’intensità di questa celebrazione supera ogni limite. In primo luogo, stiamo partecipando ad una Messa cattolica in una chiesa ortodossa che ci è stata volentieri messa a disposizione. Ammetto di aver pensato cosa sarebbe avvenuto se durante la celebrazione fosse entrato qualcheduno che aveva notato il gruppo di sconosciuti aggirarsi per il paese, o avesse mandato dei militari o dei malintenzionati … Ma non era quello il punto, perché la liturgia ci teneva inchiodati ad una Presenza, Gesù presente qui ed ora nella carne. “Su cosa poggiamo la nostra sicurezza? Su chi? – chiedeva Mons. Bizzeti. Non tanto per un discorso morale, ma perché è la paura che ci fa fuggiaschi, ricchi di benessere, ma fuggitivi per tutta la vita … Che vita è? Quale sarà il nostro destino? Chi di noi lo sa? Se siamo disposti a rischiare di morire viaggiando, perché un ubriaco ci viene addosso con la sua macchina contromano, che differenza fa correre il rischio di morire per la nostra fede? Perché avere paura allora? Non facciamoci schiavi delle nostre paure, ma affidiamoci alla fede in Gesù e viviamo tutto con Lui”

Non c’è nulla che vale di più dello sguardo di un uomo libero come quello che si vedeva negli occhi di Mons. Bizzeti e della nostra guida musulmana. Mons. Bizzeti e lui, due amici, che portandoci all’aeroporto si sono detti: “E se tornando alle nostre case mangiassimo un bel agnellino arrosto, come Dio comanda? Tu che ne dici?”. “Certo Sua eccellenza lo troveremo sicuramente!”

Mons. Bizzeti è stata quella Presenza straordinaria che a tutti i presenti ha fatto dire: “Chi è costui?” Semplice: ”Un uomo all’altezza di tutto il desiderio che c’è nel nostro cuore!”

E così l’ultima sera, fuori programma e grazie a Roberta, abbiamo chiesto a Mons. Bizzeti di dirci chi era Lui, di raccontarci di lui, per lo stupore e le domande che ha ridestato nel cuore di tutti.

Ora siamo di nuovo in Italia: tutto è come prima ma qualcosa è cambiato, questo viaggio ha messo in moto un processo dentro ciascuno per cui niente è più come prima.